Material. Un’intervista con Wael Al Awar

di Cristiano Luchetti

Compasses Magazine

Material. An interview with Wael Al Awar

Il testo che segue è un estratto dal dialogo tra Cristiano Luchetti, Associate Editor di Compasses in Medio Oriente, e Wael Al Awar co-curatore, con Kenichi Teramoto, del Padiglione Nazionale degli Emirati Arabi Uniti per la XVII edizione della Biennale di Architettura di Venezia. La ricerca e l’istallazione che ne è nata, Wetland, hanno ricevuto il Leone d’Oro. È possibile leggere la versione integrale del testo sull’ultimo numero di Compasses, il 37.

CL: Devo iniziare con i più vivi complimenti per un risultato eccezionale. Il Leone d’Oro alla Biennale di Architettura rappresenta infatti uno dei riconoscimenti più ambiti della professione di architetto. Credo che il premio abbia ancora più valore perché coincide con la prima volta che viene assegnata la curatela del padiglione degli Emirati Arabi Uniti attraverso un bando aperto. Presumo che le celebrazioni siano ormai finite; quindi, ti chiedo, a mente fredda, cosa pensi della Biennale di quest’anno? Come hai vissuto le varie fasi che hanno caratterizzato un’edizione così incerta e peculiare? Hai avuto tempo per riflettere su l’intera esperienza?

WAA: Questa è una bella domanda, in realtà. Il padiglione degli Emirati Arabi Uniti ha dato la possibilità di partecipare al bando ad architetti operanti o con almeno una rappresentanza negli UAE. L’invito ha offerto a tutti una piattaforma equa per presentare le proprie idee. Io e i miei partner giapponesi stavamo già lavorando alla ricerca proposta perché siamo architetti praticanti. Forse conosci alcuni dei nostri edifici e progetti a Dubai. Dalla moschea Al Warqa, all’Hai D3, il progetto di container nel quartiere del design di Dubai, al Jameel Art Center e allo spazio pubblico sul lungo fiume di Al Jaddaf. Come architetti praticanti oggi nel XXI secolo, essendo consapevoli dell’emergenza climatica in atto, sentiamo di dover rispondere in qualche modo. Non possiamo più dire che non è un nostro problema, non una nostra responsabilità.

Come progettisti, dovremmo essere ritenuti responsabili dei materiali che utilizziamo e del loro impatto ecologico sull’ambiente. Sfortunatamente, negli Emirati Arabi Uniti, siamo limitati in termini di disponibilità di materiali. Esistono principalmente i materiali moderni importati e disponibili sul mercato: cemento, acciaio e vetro, ecc. Ma è sempre stato difficile per noi trovare qualcosa che potessimo mettere in relazione con il vernacolo locale. In questo momento di tale crisi climatica, molti architetti in tutto il mondo, compresi altri colleghi curatori, come quelli del padiglione nordico o del padiglione filippino, si stanno rivolgendo al materiale vernacolare presente nei loro territori d’origine per smettere di utilizzare materiali moderni dannosi per lambiente. Negli Emirati Arabi Uniti, non è possibile. Stavamo cercando a cosa tornare. Ad esempio, l’arish, le foglie delle fronde di palma, non è un materiale che può essere utilizzato nella costruzione a una scala o livello moderno. Si potrebbe costruire una casa in legno o anche un edificio a più piani, ma dubito comunque di guardare al vernacolare come principale strategia sostenibile. Con l’aumento della popolazione mondiale da 7,5 a 10 miliardi entro il 2050, dobbiamo provvedere all’abitare di più di due miliardi di persone nei prossimi 35-40 anni. Come lo faremo? Di recente, la Fondazione Bill e Melinda Gates ha pubblicato un rapporto su questo problema. Il loro rapporto afferma che dovremo costruire l’equivalente di una New York City ogni mese per i prossimi 40 anni per soddisfare questa popolazione in crescita entro il 2050. Gli Emirati Arabi Uniti ora hanno una popolazione di 10 milioni e la proiezione è che diventerà di 20 milioni entro il 2050.

Quindi come costruiamo per questa gente? In un certo senso, abbiamo già una ricerca in atto. Ma stiamo veramente esaminando questi problemi e pensando a come possiamo affrontare tali argomenti e costruire le nostre città future, assicurandoci, alla fine della giornata, di avere un mondo in cui vivere? Perché penso che, per come stanno andando le cose, alla fine non avremo più un pianeta abitabile. Come ho detto, stavamo già esplorando le possibilità di una ricerca in tali termini. L’open call è arrivata ed è stata per noi un’opportunità per rispondere ad alcune domande che ci stavamo già ponendo. Una di queste era: abbiamo un sistema costruttivo, ma abbiamo bisogno di un nuovo sistema, perché quello che abbiamo non funziona. Quale potrebbe essere questo nuovo sistema nel Golfo, in particolare nei paesi del GCC? Voglio dire, se altri paesi possono rivolgersi al loro vernacolo, ai loro altri metodi sostenibili, il Golfo non ha questo lusso. Così abbiamo pensato all’idea di iniziare a considerare i rifiuti industriali come nuovo materiale vernacolare. Ma anche se avessimo un vernacolo a cui tornare, il processo di estrazione del materiale consumerebbe comunque risorse.

Quindi, perché non guardare ai rifiuti industriali? Questa era la proposta che abbiamo presentato come risposta alla call, in particolare esaminando i materiali di scarto del processo di desalinizzazione dell’acqua di mare.

Infatti, sapevamo che tale materiale salino altamente saturo avrebbe potuto offrirci una soluzione. Sapevamo che alcune regioni usano il sale come loro materiale tradizionale, come Siwa al confine tra Libia ed Egitto o Chatt Al Jerid in Tunisia. Lars Homstead in Star Wars è costruito dalle saline locali, Sabkhas. Sapevamo che negli Emirati Arabi Uniti esistevano queste saline e abbiamo pensato di poter indagare su tali processi. Allo stesso tempo però la ricerca si poteva allargare anche ad altri rifiuti industriali.

Questa era, in sostanza, la nostra proposta per la Biennale.

[…]

CL: Fin dall’inizio, ero molto interessato a saperne di più sulla vostra ricerca e sui suoi possibili esiti. L’indagine si allinea perfettamente con il tema scelto dal curatore della Biennale. Oltre a proporre una riflessione critica sull’uso dei materiali e sul loro impatto ambientale, credo che il padiglione degli Emirati Arabi Uniti stimoli una discussione che si estende all’intera nozione di architettura. Perché, per me, mette in discussione il concetto stesso di cosa sia (o potrebbe essere) l’architettura nel mondo contemporaneo. Provo a spiegarmi meglio.

Mentre in altri campi la ricerca promuove innovazioni che si susseguono a velocità sempre più elevate, i processi tecnologici applicati ai metodi di costruzione architettonica e alla produzione dei materiali sembrano evolvere più lentamente. Dopo molti anni di sperimentazione in laboratorio o su piccola scala, le applicazioni delle tecnologie digitali stanno diventando una realtà. Riguardano principalmente strutture o involucri generati parametricamente, a volte edifici completamente stampati in 3D, e non solo componenti come succedeva nel recente passato. Tuttavia, è indiscutibile che quando visitiamo le città di tutto il mondo, i cantieri appaiano ancora, almeno dall’esterno, molto simili a quelli di 50 anni fa. Inoltre, nonostante anni di discussioni, anche se la consapevolezza dell’impatto dei metodi di costruzione tradizionali sull’ambiente è oggi maggiore rispetto al passato, soluzioni pienamente sostenibili devono ancora diventare pratica pienamente condivisa. Uno sforzo generalizzato per convertire i processi di costruzione più inquinanti e ripensare la sostenibilità dei materiali utilizzati deve ancora diventare una realtà. Quindi la vostra ricerca è decisamente contemporanea. Si inserisce nell’abaco delle azioni umane che ora dobbiamo ritenere perentoriamente necessarie. Tuttavia, a ben vedere, l’installazione all’interno del padiglione sembra aver interrotto il suo sviluppo subito prima di affrontare la sfida forse più difficile. Ovvero, i rifiuti della dissalazione si sono trasformati in un nuovo tipo di calcestruzzo ma non hanno raggiunto lo status di entità spaziale fenomenologica, un unico dato morfologico generato dalle proprietà specifiche del materiale utilizzato. Per spiegare meglio il mio commento, potrei ricordare, ad esempio, come gli antichi pensavano e costruivano le volte. Sono tipologie strutturali generate utilizzando elementi discreti come mattoni o pietre. Oppure, dal punto di vista spaziale, possiamo definirli come forme raggiunte sfruttando le opportunità fisiche offerte dalla loro stessa materialità.

Quindi, pensi che l’installazione nel padiglione degli Emirati Arabi Uniti di quest’anno raggiunga lo status di una dichiarazione architettonica? In altre parole, la produzione di un nuovo materiale, per quanto sofisticato, innovativo e sensibile all’ambiente, è sufficiente per identificare e definire un concetto architettonico? Se sì, qual è allora la differenza tra architettura e scienza dei materiali? In definitiva, quando e come pensi che i materiali diventino architettura?

WAA: Sì, penso che questa sia un’ottima domanda. Come ho detto prima, avevamo un sistema costruttivo, quel sistema sicuramente non funzionava; quindi, abbiamo dovuto ripensare il nostro sistema. Una volta fatto questo, dobbiamo anche ripensare alla produzione dello spazio. Quello che sto cercando di dire è che sì, abbiamo un materiale cementizio che non possiamo usare nello stesso modo in cui abbiamo usato il cemento Portland, non è possibile, a causa di molti fattori. Insieme alla produzione del prototipo, abbiamo sollevato molte domande: qual è il ruolo dell’architetto oggi? Come produciamo lo spazio nel XXI secolo? Come riportare cultura e identità? Come portiamo specificità e contesto nel significato di un edificio?

[…]

Author: Cristiano Luchetti, is PhD and Researcher at Università Politecnica delle Marche. He is a registered architect with vast experience in leading the design of large scale projects in residential, commercial, and hospitality sectors in Europe, China, India, the Middle East, and Southeast Asia.

Photo Credits: Image courtesy National Pavilion UAE La Biennale di Venezia. Photography by Frederico Torra for PLANE-SITE. 1970

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